sabato 27 agosto 2011

somalia 2011

Continua la "litania" di annunci di aiuti finanziari, ma intanto la gente continua a fuggire e a morire. Non solo, ma adesso si scopre che molti aiuti alimentati sono stati rubati e rivenduti da chissà chi. Quattro persone trovate decapitate in un quartiere di Mogadiscio. Oltre alla carestia e all'epidemia di morbillo, s'affaccia all'orizzonte anche il colera. Intanto, in casa del presidente (provvisorio) un party con 200 invitati

di CARLO CIAVONI ROMA - Prosegue la "litania" degli annunci di risorse finanziarie destinate alla Somalia. L'ultima è di ieri, quando ad Ankara si sono riuniti i rappresentanti di 57 stati islamici, ospiti del presidente turco Erdogan, oggi in visita a Mogadiscio. Al termine dell'incontro è stato deciso di stanziare 350 milioni di dollari per affrontare la crisi alimentare. Contemporaneamente, sir Andrew Mitchell, ministro per lo sviluppo internazionale del governo britannico (primo tra i ministri europei) è arrivato a Mogadiscio e, dopo aver visitato gli accampamenti dei rifugiati, ha annunciato l'impegno di stanziare 25 milioni di sterline (circa 41,5 milioni di dollari) in favore della Somalia.

Ma dove va tutto quel denaro?.
Visto però che gli effetti dell'impiego di tutto questo denaro - annunciato e non si sa poi se mai arrivato - non si riescono a vedere e che gli sforzi maggiori sembrano invece essere concentrati nell'aumento di armamenti alle truppe Amison (il contingente dell'Unione Africana, in Somalia col ruolo di peacekeeping e per contrastare gli uomini di Al Shabaab) visto tutto ciò, la domanda che molti osservatori di pongono è: in mano a chi andranno tutti quei soldi? E la risposta, purtroppo, al momento è: non si può far altro che sperare nella migliore delle tante ipotesi che è possibile immaginare.

Intanto si rubano il cibo degli aiuti.
Come se non bastassero la guerra, la carestia e i sospetti che l'instabilità politica della Somalia faccia comodo a troppi ambienti internazionali, mentre continuano ad essere stremati dalla fame oltre tre milioni di somali, a Mogadisho è fiorito anche un mercato parallelo degli aiuti umanitari che arricchisce gli speculatori. I sacchi di cibo, sottratti con la complicità di funzionari corrotti, sono poi rivenduti a caro prezzo. "Non ho ricevuto aiuti alimentari dall'Onu da quando siamo arrivati - sostiene una rifugiata - anche quel poco che ci offre la gente ci viene rubato dalle milizie. Aiutateci".

La crisi e i suoi vantaggi. A confermare i sospetti che l'attuale crisi Somala rappresenti l'occasione per cementificare la sua precarietà politico-istituzionale, generatrice di manovre straniere e capaci di favorire affari oscuri, c'è il rapporto di Human Rights Watch. 1 Nessuno - dice in sostanza - nemmeno i militari che partecipano alla missione dell'Unione africana è esente da responsabilità. Anche loro hanno sparato in aree densamente popolate, mettendo a repentaglio la vita dei civili, non diversamente da come hanno fatto le milizie islamiche Al-Shabaab e i soldati del governo federale transitorio.

Si decapita per la strada. Lo conferma il fatto che stamane agli abitanti di Deyniile (un quartiere di Mogadiscio) si è presentata una scena macabra: tre ragazzi erano stati decapitati nella notte scorsa, mentre il corpo di un militare, anche lui senza testa, è stato gettato in uno spiazzo a ridosso del luogo dove si svolge il mercato del bestiame. Nella capitale somala, l'orrore della violenza si mescola a quello dell'estrema povertà e della carestia che sta decimando un popolo. Nessuno sa, e forse non si saprà mai, chi è stato a compiere gesti simili. "Human Rights Watch fa appello a tutte le parti in causa affinché mettano fine agli abusi contro i civili, consegnino alla giustizia i responsabili, garantiscano l'accesso agli aiuti e la libertà di movimento a chi è in fuga dal conflitto e dalla siccità". Parole al vento.

Il ministro (provvisorio) chiede aiuto. Ma agli annunci continui di invio di risorse e denaro, si aggiungono gli appelli di aiuto, che oggi sono arrivati direttamente da uno dei ministri del governo provvisorio somalo, quello dell'agricoltura, Abdullahi Agi Hassam Mohamed Nuur. "Occorre subito salvare vite umane - ha detto - inviando cibo, acqua, medicine, bisogni primari". Un grido d'allarme lanciato a margine dell'ennesimo vertice, a Roma, organizzato dalla Fao per fare un punto sulla crisi alimentare nel Corno d'Africa. Dallo scorso 25 luglio, quando ci fu l'ultima riunione alla Fao sull'argomento, "la situazione si è deteriorata - ha detto il ministro - centomila persone sono fuggite a Mogadiscio per cercare acqua e cibo mentre 1,4 milioni di bambini e anziani necessitano di assistenza immediata"

E ora anche il colera. Aumentano vertiginosamente anche i casi di colera a Mogadiscio, tanto che le associazioni umanitarie temono la diffusione di un'epidemia. Ad essere colpiti sono, per ora, soprattutto donne e bambini. In vista di questa ulteriore emergenza Oxfam 2 ha dato il via a un programma di prevenzione anti-colera per 20 mila persone nei 3 campi profughi attorno a Mogadiscio mediante distribuzione di sali di reidratazione, sapone e una campagna d'informazione per ridurre i rischi di contrazione della malattia. Inoltre oggi arriverà nella capitale somala un cargo contente 47 tonnellate di aiuti d'emergenza. A bordo dell'aereo partito da Nairobi, l'Oxfam assicura che, oltre ad acqua potabile, il cargo trasporterà tubature per costruire centri di raccolta idrica nella capitale somala, sapone e 12 mila recipienti utili per fare scorte di acqua. Si calcola che del totale degli aiuti potranno beneficiare 120 mila persone.

Il grande party a Villa Somalia. Contemporaneamente a tutto ciò, oltre le mura che delimitano il giardino di Villa Somalia, residenza del presidente provvisorio Sharif Ahmed, a Mogadiscio, si festeggia e si brinda con oltre 200 invitati. A poche decine di metri, centinaia di migliaia di persone, inzeppate nei campi profughi, aspettano la morte, sfiniti dalla fame, dalla sete e da ogni sorta di malanni. Lo si è appreso da un'intervista rilasciata alla Bbc dal professore somalo Abdi Ysmail Samantar, docente di Geografia all'università del Minnesota, interpellato sulla situazione nel suo Paese. E possibile capire cosa sta succedendo in Somalia anche da documenti di questo genere.

Il dramma dei profughi. Che va oltre i confini somali. Il governo keniano ha chiesto all'Onu di fermare il flusso migratorio che preme ai confini meridionali e sud occidentali della Somalia. Il tasso di mortalità nel campo per rifugiati di Dadaab, in Kenia, ha raggiunto livelli allarmanti, dice un altro rapporto Onu. In quel luogo tentano di sopravvivere 400 mila persone, un numero quattro volte superiore alla capienza prevista. Ma quello verso il campo di Dadaab è un viaggio pericoloso in cui banditi e polizia agiscono talvolta allo stesso modo.
Il ministro dell'Agricoltura kenyota Sally Kosgei - nel corso del vertice Fao di oggi a Roma - intervenendo alla riunione, ha ricordato che nel suo Paese "le famiglie stanno perdendo la loro battaglia e la situazione è aggravata dall'arrivo dei rifugiati. Il 60% delle terre sono aride o semi-aride".


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sabato 23 maggio 2009

23 maggio 92

Chiunque fa questa attività, ha la capacità di scegliere tra la paura e la vigliaccheria.La paura è qualche cosa che tutti abbiamo: chi ha paura sogna, chi ha paura ama, chi ha paura piange.È la vigliaccheria che non si capisce e non deve rientrare nell'ottica umana

(Antonio Montinaro )

venerdì 3 aprile 2009

giovanni paolo secondo

Discorso di Giovanni Paolo II (ad Agrigento, alla Valle dei Templi, il 09.05.1993): Che sia concordia in questa vostra terra. Concordia: senza morti, senza assassinati, senza paure senza minacce, senza vittime. Che sia concordia! Questa concordia, questa pace a cui aspira ogni popolo ed ogni persona umana, ed ogni famiglia, dopo tanti tempi di sofferenze. Avete finalmente un diritto a vivere nella pace. I colpevoli che portano sulle loro coscienze tante vittime umane debbono capire che non si permette di uccidere degli innocenti. Dio ha detto una volta: Non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, qualsiasi mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Questo popolo siciliano è un popolo talmente attaccato alla vita, che dà la vita. Non può sempre vivere sotto la pressione di una civiltà contraria, di una civiltà della morte. Qui ci vuole una civiltà della vita. Nel nome di Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio! Ieri abbiamo ricordato l'anniversario di questo grande uomo e papa e penso sia giusto nel nostro gruppo ricordarlo così, facendoci scuotere ancora una volta dalle sue parole, da quell'anatema contro le mafie. Pensando come anche il nostro caro don Peppino si sia sentito incoraggiato e sostenuto dalla Sua Chiesa che mai come allora si era schierata così apertamente e duramente contro ogni forma

domenica 29 marzo 2009

Federico del prete un eroe picco piccolo

"Non posso farlo, perché non avrei più la forza di guardare in faccia le persone che hanno creduto in me": con queste parole Federico Del Prete rispondeva al fratello Vincenzo, che lo esortava a partire per il Venezuela, a fuggire da una situazione di grave minaccia in cui viveva ormai da molto tempo e che si sarebbe tragicamente conclusa, solo una settimana dopo, con la sua barbara uccisione.
Federico era un uomo che il magistrato Tullio Morello (giudice del tribunale di Napoli) non ha esitato a definire "uno dei migliori cittadini italiani, tanto esposto non nell'interesse proprio ma per quello della collettività".
"Un eroe piccolo piccolo": l'espressione più bella, usata per lui, è della brava e coraggiosa Rosaria Capacchione, che ne ha raccontato la storia con tenacia e passione, quando la notizia destava interesse se non nella ristretta area di Caserta, giungeva mestamente e distrattamente a Napoli e provincia, probabilmente neanche arrivava a Salerno, Avellino, Benevento.
La grandezza di questa figura stava nell'umiltà e nella dignità. Federico era umile perché si dedicava con serietà e passione ad un mestiere semplice, che non prometteva successo sociale e lauti guadagni, specie se condotto onestamente. Era dignitoso perché rivendicava per il suo lavoro la libertà e la tutela da ogni forma di sopraffazione.
Federico viveva, però, in terra di camorra. L'integrità ha un prezzo in terra di camorra. Anzi, ne ha due.
Uno è la mesta rassegnazione che induce alla fuga, oppure deprime lo spirito e si esaurisce in un silenzio impotente e complice, che a poco a poco spegne l'intelligenza e la voglia di pensare e capire.
Se, però, non sei disposto a pagare questo prezzo, se non vuoi barattare una parvenza di tranquillità con la tua dignità e il rispetto verso te stesso, allora sei costretto a pagare l' altro prezzo, più grande, forse: la tua vita.
Federico aveva scelto la seconda strada. Non ce la faceva a rinunciare alla sua dignità, alla libertà di esercitare il suo mestiere senza condizionamenti e nel rispetto della legge.
Federico, infatti, è morto. In poche occasioni è stato ricordato in seguito: una cerimonia commemorativa un anno dopo, alcuni trafiletti delle cronache locali, in occasione delle alterne vicende processuali che interessavano i responsabili del suo assassinio, dal 2005 fino ad oggi. E' tuttora in corso il processo contro Antonio Corvino, il pentito che si è autoaccusato dell'assassinio e che ha recentemente chiesto perdono ai familiari.
Poi c'è Roberto Saviano, che, spesso e quasi ossessivamente, ripete il nome di Federico Del Prete come uno degli esempi migliori di coraggio della sua terra e reclama attenzione per la sua storia dimenticata.
Assecondando questa ossessione, ti viene voglia di informarti, sapere e, se puoi, raccontare e ricordare. E' difficile, però, ricordare Federico, perché pochi, troppo pochi ne hanno parlato. Per trovare informazioni particolareggiate, bisogna scandagliare bene le fonti. Nel web, per esempio, si trovano quasi solo articoli delle cronache locali, redatti all'indomani dell'uccisione, tutti (o quasi) più o meno generici e poco dettagliati.
Eppure Federico, nella sua semplicità, aveva fatto tanto, davvero tanto.
Veniva da Frattamaggiore, in provincia di Napoli, si era sposato a Casal di Principe (Caserta) e qui viveva con la moglie e i figli. Il suo mestiere era quello di commerciante ambulante di vestiti.
In una terra che vede nei commercianti ambulanti spesso un simbolo di folklore, un emblema dell'arte di arrangiarsi, addirittura un nemico da cui difendersi, nella percezione dei turisti o degli ottusi malcapitati del Nord (non tutti, non facciamo di un'erba un fascio), Federico prendeva il suo lavoro seriamente e lo svolgeva onestamente e nel rispetto delle regole. Soprattutto, non capiva perché avrebbe dovuto pagare il pizzo alla camorra e non ammetteva l'illegalità. In molte occasioni aveva fatto sentire la sua voce, spessissimo rivendicava la protezione delle autorità e delle forze dell'ordine.
Militava nel sindacato, ma presto decise di staccarsi dalle organizzazioni più grandi, per fondare un proprio sindacato autonomo, lo SNAA, Sindacato Nazionale Autonomo Ambulanti, ovvero un'organizzazione volta a tutelare una categoria, appunto, particolarmente debole, soggetta ai ricatti della criminalità. Ad un anno dalla sua creazione, il sindacato SNAA contava ben tremila iscritti. In seguito alla sua morte, i Sindacati confederati neanche hanno mai più ricordato Federico: proprio lui che si batteva per difendere, come loro, i più deboli.
La sua ossessione erano gli abusivi, i venditori senza licenza che occupavano le aree libere dei mercati. Contro l'abusivismo e contro il pizzo chiesto dalla camorra, aveva, infatti, organizzato una manifestazione presso il mercato di via Taverna del Ferro - altrimenti detto "il Bronx" - a Napoli: numerosi commercianti vi aderirono, fu un grande successo. Tutto è stato, poi, dimenticato.
Presso il mercato di Mondragone (Caserta) intendeva, naturalmente, fare lo stesso. L'abusivismo non era consentito dalla legge e lui lo combatteva. Il pizzo era inaccettabile (oltre che illegale) e lui lo denunciava. Qui, però, la camorra, o meglio "o sistema", era rappresentata dalla più feroce organizzazione criminale del mondo (oggi è, così, universalmente e unanimemente riconosciuta): i Casalesi. Citando nuovamente Rosaria Capacchione, qui le mazzette erano qualcosa di più di un semplice sistema di corruzione e il riserbo, anzi l'omertà era un credo per la gente comune.
Segnalava continuamente denunce per estorsioni alla fiera di Mondragone e presentava puntualmente decine e decine di esposti alle stazioni dei carabinieri di mezza Campania e negli uffici di polizia. Un altro suo cavallo di battaglia era la gestione delle aree comunali destinate ai mercati. La fonte più preziosa di informazioni erano le segnalazioni degli iscritti al suo sindacato sulla discrezionalità nell'attribuzione dei posti agli «spuntisti» (gli ambulanti occasionali, come lui stesso era stato) e sulle tassazioni richieste. L'ultima denuncia, ad esempio, riguardava le tariffe applicate dalla Sirtac (la società che gestisce la riscossione dei tributi sull'occupazione dei suoli pubblici a Casal di Principe e Villa Literno).
Un altro coraggioso atto fu la denuncia del business da 5 milioni di euro all'anno per i clan prodotto dalle buste di plastica imposte nei mercati settimanali della Campania. Nelle fiere, aveva spiegato agli inquirenti, messaggeri di ditte legate alla camorra imponevano le buste di plastica a 5 euro al chilo, quando alla fonte costavano appena 1 euro e 23 centesimi.
Anche nel caso di Federico, però, la vicenda che ha determinato la decisione di ammazzarlo da parte dei clan è stata una brutta storia di racket. Aveva denunciato senza paura il vigile urbano Mattia Sorrentino, esattore presso il mercato per conto del clan La Torre, successivamente condannato (13 anni in primo grado, ridotti a 5 anni e 8 mesi in appello). Sorrentino era una figura a dir poco "imbarazzante": vigile urbano, condannato per ricettazione di materiale archeologico, parente di Filoso, un esponente del clan La Torre. Nonostante ciò, Sorrentino era stato promosso ai gradi di maresciallo. Suo figlio era, all'epoca dei fatti, consigliere comunale del centro-destra. Federico riuscì a far arrestare Sorrentino, raccogliendo le testimonianze dei numerosi iscritti al suo sindacato, spesso ricorrendo al sistema delle intercettazioni ambientali, un oltraggio inaccettabile per i clan. Per di più, Federico avrebbe dovuto testimoniare al processo contro Sorrentino, in un'udienza fissata per il 19 Febbraio 2002, il giorno dopo la sua morte.
Era, dunque, il momento di fermarlo. A Gennaio gli bruciarono l'auto.
Come Saviano ha raccontato al festival di Ferrara: " prima di ucciderlo, i clan fecero una specie di sondaggio per capire se i giornali avrebbero parlato o meno di lui. Quando ebbero verificato che nessuno ne avrebbe riferito se non i giornali locali, i soliti cronisti di nera, diedero l'ordine di morte".
Erano le 19,30 quasi, era il 18 Febbraio 2002. Federico parlava al telefono negli uffici, in via Baracca a Casal d Principe, che lo Snaa condivideva con un'altra associazione: quattro sicari fecero irruzione, gli spararono in volto e al petto. Pochi minuti dopo arrivò il figlio Vincenzo, dopo aver visto la scena uscì per strada, chiese aiuto, ma i numerosi passanti - come racconta lui stesso - fecero finta di non sentire e si voltarono dall'altra parte.
Ai funerali, la famiglia dovette subire un identico isolamento. Gli oltre tremila iscritti al sindacato erano tutti assenti, ad eccezione di una manciata ridottissima di coraggiosi convenuti. I militanti del suo sindacato, spesso confortati e concretamente aiutati da Federico, "quelli che non avrebbe avuto più la forza di guardare in faccia se fosse partito", al processo, negarono persino di essere iscritti, anche quando venivano messi di fronte alla prova schiacciante delle intercettazioni . Usciti dall'aula, come racconta lo stesso Saviano, si avvicinavano alla moglie di Sorrentino e chiedevano: "Signò, ho detto bene?"
Non c'erano i tanti politici che avevano assicurato la loro presenza (tra questi persino Violante, che aveva detto "verrò da questo eroe sconosciuto"). C'erano, però, tanti carabinieri a protezione della famiglia. C'era anche Roberto Saviano, che dalla disperazione di quella solitudine ha tratto una bellissima lettera, idealmente indirizzata a Federico.
Il parroco che officiava la messa era Don Franco Picone, l'erede di don Giuseppe Diana, ammazzato otto anni di prima dalla camorra. Don Franco elogiò l'esempio di vita di Federico, anche come cristiano, perché "nel vangelo non c'è scritto fatti i fatti tuoi, ma aiuta il prossimo, e lui l'ha fatto". Eppure, poco dopo la sua morte, molti dissero addirittura che era colluso con i camorristi.
Federico è stato ammazzato non solo per quella specifica vicenda di racket, ma perché era un personaggio libero e onesto, e, quindi, scomodo. E' stato spesso elogiato dagli investigatori come validissimo aiuto nelle loro indagini. I rappresentanti dello Stato, che lottano quotidianamente contro la criminalità, lo hanno rimpianto e lo rimpiangono tuttora. Lo Stato, però, lo ha dimenticato.
Me lo dicevi: "Robbè fuj, vattenne, via da qua. Qui al sud è impossibile vivere come un uomo". Quando ti rispondevo: "perché non te ne vai prima tu? Perché tu non emigri?" La tua risposta metteva paura: "io sono finito Robbè, io o vado avanti sino in fondo o è come se non avessi fatto niente. Ma tu puoi andartene. Puoi non farti fottere da questi." La tua era una battaglia disperata. Non pensavi di sconfiggerli ma almeno di far emergere qualcosa perchè non poteva sempre andare come sempre, non poteva tutto rimanere immutato. Non possono sempre essere loro a decidere, non può tutto andare come volevano. Sapevi che doveva pur esserci un modo per fermare i politici, i costruttori e le loro alleanze cementate con i clan...(Roberto Saviano, Nazione Indiana)
Forse, è venuto il tempo di ricordarlo, questo eroe piccolo piccolo.
di Mariella Di Stefano
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sabato 28 marzo 2009

vittime innocenti uccisi dalla camorra per non dimenticarli

Salvatore Nuvoletta, carabiniere, 2 luglio 1982.
Franco Imposimato, sindacalista, 11 ottobre 1983.
Ignazio De Florio, agente penitenziario, 11 ottobre 1983.
Salvatore Squillace, studente sedicenne, 10 giugno 1984.
Giancarlo Siani, giornalista, 23 settembre 1985.
Carmelo Ganci e Luciano Pignatelli, carabinieri, 4 dicembre 1987.
Alfonso Romano, meccanico, 23 aprile 1990.
Antonio Nugnes, assessore a Mondragone, 11 luglio 1990.
Salvatore Richiello, operaio, 18 aprile 1991.
Michele Richiello, operaio, 18 parile 1991.
Angelo Riccardo, studente, 21 luglio 1991.
Gennaro Falco, medico, 29 ottobre 1993.
Don Peppino Diana, sacerdote, 19 marzo 1994.
Michele Miraglia, imprenditore, 19 febbraio 1996

venerdì 27 marzo 2009

om'merda

dedicata ai tutti Campani onesti

Om’ merda,
•Che spari alle spalle ,
•Per uccidere
• non per i tuoi desideri,
•Ma per volere di altri
•Ti sei sporcato le mani
•Del sangue d’innocenti,
•Come solo i vili sanno fare ,
•ti chiamano uomino d’onore,
•ma l’onore è altra cosa ,
•Puoi ammazzare un uomo …..ma non la sua idea

giovedì 26 marzo 2009

per non dimenticare

LA mattina del 19 marzo del 1994 don Peppino era nella chiesa di San Nicola, a Casal di Principe. Era il suo onomastico. Non si era ancora vestito con gli abiti talari, stava nella sala riunioni vicino allo studio. Entrarono in chiesa, senza far rimbombare i passi nella navata, non vedendo un uomo vestito da prete, titubarono.Chi è Don Peppino?Sono io...Poi gli puntarono la pistola semiautomatica in faccia. Cinque colpi: due lo colpirono al volto, gli altri bucarono la testa, il collo e la mano. Don Peppino Diana aveva 36 anni. Io ne avevo 15 e la morte di quel prete mi sembrava riguardare il mondo degli adulti. Mi ferì ma come qualcosa che con me non aveva relazione. Oggi mi ritrovo ad essere quasi un suo coetaneo. Per la prima volta vedo don Peppino come un uomo che aveva deciso di rimanere fermo dinanzi a quel che vedeva, che voleva resistere .........

Roberto saviano

riflettiamo